Mentre il paese intero riscopre un singolare umanesimo di circostanza nel dare l’estremo saluto a Umberto Eco, vera icona della di quella classe intellettuale italiana, che pur non disdegnando le manifestazioni artistiche più popolari, rimane solidamente tradizionalista ed elitaria quando si tratta di decidere cosa sia o meno cultura, varrebbe forse la pena azzardare qualche riflessione sull’importanza sul valore concreto di questa impalpabile nozione e su quanto essa possa essere determinante per il nostro futuro. In Italia, azzardarsi a discutere, non dico del valore economico, ma anche del costo opportunità di effettuare studi umanistici è un po’ come bestemmiare in chiesa, come testimoniano le discussioni sorta in merito ad una serie di post di Stefano Feltri sul tema
Quel che ci appassiona è discutere del calo delle iscrizioni al liceo classico denunciato da intellettuali come Umberto Galimberti quale inequivocabile segnale di un processo di impoverimento culturale, in cui i gusti della popolazione s’imbarbariscono e la perfida legge del mercato, agisce come una sorta di circolo vizioso: “Così il degrado viene alimentato e il fiume dell’ignoranza collettiva s’ingrossa, perché a suo tempo la scuola non ha generato una curiosità e una fascinazione per la cultura, dato che la sua preoccupazione è addestrare al futuro mondo del lavoro”.
Nel frattempo, negli Stati Uniti, terra di barbari cowboy il presidente si preoccupa di investire 4 miliardi di dollari per introdurre l’insegnamento del coding nelle scuole. Messa così, agli occhi degli intellettuali nostrani potrebbe apparire una mossa utilitaristica, volta a rendere sempre più spendibili sul mercato del lavoro le competenze degli studenti. Eppure uno degli slogan del progetto evoca una prospettiva differente: “Non comprate un nuovo videogame: fatene uno. Non scaricate l’ultima app: disegnatela. Non usate semplicemente il vostro telefono: programmatelo”.
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