L’impresa Italia è un Gattopardo

Sull’ Economist di questa settimana, nella sezione business, c’è un articolo nel quale l’Italia viene utilizzata per rappresentare l’emblema del declino di un sistema imprenditoriale che una volta era fiorente. Lo riassumo per i lettori di questo blog.

Ascolta l’articolo in Podcast su La Finanza in Soldoni

Il “Gattopardo”, celebre romanzo di Giuseppe Tomasi di Lampedusa, racconta le difficoltà di adattamento e le resistenze al cambiamento dei nobili siciliani all’indomani dell’unità d’Italia. Mutatis mutandis il racconto si può utilizzare anche per rappresentare il declino dell’impresa italiana.

“Avevamo la regione più ricca e perfetta del mondo, ma siamo vecchi aristocratici che stanno perdendo il loro slancio”,

Marco Tronchetti Provera

dichiara alla rivista Marco Tronchetti Provera, a capo della Pirelli, che produce pneumatici a Milano da 148 anni. Ascoltando anche diversi suoi omologhi sembra di sentire la voce di al Don Fabrizio di Lampedusa, che si struggeva per i giorni in cui “eravamo i leopardi, i leoni”. Come il personaggio del romanzo, vedono il mondo in subbuglio, ma non sono in grado di fare molto.

Per Ironia della sorte, quando il romanzo fu pubblicato nel 1958 l’impresa italiana non era affatto in declino, ma anzi viveva un momento particolarmente positivo. Il PIL del paese tra il 1951 e il 1963 è raddoppiato e cresciuto di altri due terzi fino al 1973. Gli attacchi terroristici delle Brigate Rosse negli anni ’70 hanno scosso il paese, ma non sono riuscite a fermare la locomotiva del suo tessuto imprenditoriale: con Olivetti che diventava secondo produttore di computer al mondo, Montedison settima azienda chimica, Mediobanca che rivaleggiava con Lehman Brothers e Lazard tra le banche d’investimento, mentre Benetton vestiva le masse con maglioni colorati e Armani, Versace e Dolce & Gabbana trionfavano tra Wall Street e Beverly Hills.

Oggi la situazione è molto diversa e il cambiamento non è un fenomeno recente: già 15 anni fa l’Economist qualificava il nostro paese come “il vero malato d’Europa”. Prima che il Covid19 arrivasse a darle il colpo di grazia, l’economia italiana non si era ancora ripresa dalla crisi del 2007-2009. La capitalizzazione della borsa di Milano vale meno di 500 miliardi di euro e rappresenta appena il 3,7% dell’indice MSCI dei titoli europei, in calo rispetto al 6,2% del 2000, in base alle elaborazioni della banca Morgan Stanley.

Solo sette aziende italiane figurano nell’elenco delle 1000 più grandi del mondo per capitalizzazione di borsa. La più grande, Enel, con 77 miliardi di flottante costituisce un errore di arrotondamento rispetto alle imprese tecnologiche americane che hanno superano anche mille miliardi.

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Piuttosto che affrontare queste sfide, molti magnati italiani hanno deciso di vendere i gioielli di famiglia. Tra i marchi italiani più noti che sono passati in mani straniere nell’ultimo decennio ci sono Bulgari, per la gioielleria (venduto a lvmh, un gruppo francese del lusso); Luxottica, che produce i celebri occhiali da sole Ray-Ban (e si è fusa con Essilor, un’azienda francese di occhiali da vista) e Versace (acquistata da Michael Kors, una casa di moda americana). Dal 2015 il maggiore azionista di Pirelli è ChemChina, un colosso statale. Nel 2018 Federico Marchetti ha venduto Yoox Net-a-Porter, la sua startup attiva nella vendita di beni di lusso online, raro successo tecnologico italiano, a Richemont, un gruppo svizzero.

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Altre imprese hanno deciso di trasferire all’estero la loro sede. Dopo la fusione con Chrysler nel 2014, la Fiat ha trasferito la sede centrale a Londra e la sede legale in Olanda; ora si appresta a fondersi con il Gruppo PSA, una casa automobilistica francese. Ferrero, che ha inventato la Nutella, ha spostato molte attività in Lussemburgo. Quest’anno Campari, produttore dell’iconico aperitivo del ha scelto l’Olanda. Ad essa potrebbe aggiungersi Mediaset, la più grande emittente privata italiana controllata da Silvio Berlusconi, di cui ormai si parla più per la carriera politica e per gli scandali giudiziari, che non per l’attività d’impresa.

Altre ancora si sono drasticamente ridimensionate. In 20 anni la capitalizzazione di borsa di Generali, si è più che dimezzata, arrivando a 19 miliardi di euro. Quello di Telecom Italia è scesa quasi del 90%, a 7 miliardi di euro. Intesa Sanpaolo e UniCredit, si sono avventurate in operazioni di acquisizione all’estero per poi abbandonare le mire di espansione.

Secondo il settimanale britannico le tre determinanti principali del declino inesorabile del nostro paese hanno a che fare con la scarsità di capitale finanziario, sociale e umano in un circolo vizioso che si auto alimenta.

Secondo una stima dell’OCSE, circa il 40% del stato patrimoniale delle aziende italiane è costituito da debito a breve termine, una proporzione che non ha eguali tra i grandi paesi europei. Se il credito viene concesso in base alla storia (o alla relazione consolidata nella storia) è più difficile ottenerlo per i nuovi entranti. Inoltre il rischio politico – di cui la recente ascesa del Movimento 5 stelle, dichiaramente ostile all’impresa, costituisce l’emblema – logora i nervi: fare affidamento solo sulle banche vuol dire che in caso di crisi finanziaria, come quelle sperimentate di recente, sono tutti i clienti a trovarsi in difficoltà., non solo quelli inadempienti.

Tutto ciò limita gli investimenti e rende le imprese italiane più vulnerabili agli shock macroeconomici, di cui la pandemia covide-19 è l’ultima. Secondo le stime di Cerved, società specializzata nella valutazione del merito di credito. nel migliore degli scenari il 7% delle imprese non finanziarie è a rischio di default quest’anno. Nel peggiore dei casi si potrebbe superare il 10%.

I mercati dei capitali italiani sono meno sviluppati rispetto al resto d’Europa, per non parlare dell’America. Le élite imprenditoriali si lamentano dell’avversione degli italiani a investire nel proprio mercato azionario, nonostante gli italiani abbiano un tasso di risparmio tra i più alti al mondo. Gli investitori sono diffidenti a investire in società quotate controllate dalle famiglie fondatrici o dallo Stato, che dominano i listini italiani, e che si oppongono agli aumenti di capitale per evitare che la loro partecipazione ne risulti diluita.

La fiducia nelle grandi imprese viene erosa anche dai numerosi scandali che emergono di continuo: a luglio i pubblici ministeri hanno chiesto una condanna a otto anni di carcere per il capo dell’Eni, una major del settore petrolifero, per aver presumibilmente corrotto funzionari nigeriani per ottenere un blocco di petrolio. Lui e la compagnia negano l’illecito.

Lo scetticismo nei confronti del mondo delle imprese alimenta la sfiducia erodendolo il capitale sociale, di per sé già scarso. Secondo un’indagine recente, nove italiani su dieci vogliono imporre dei tetti alle retribuzioni dei dirigenti, si tratta della quota più alta tra i sette Paesi occidentali inclusi nella ricerca.

Questo si aggiunge alla burocrazia tentacolare che ostacola la nascita e lo sviluppo di nuove imprese. L’Italia è al 58° posto su 190 Paesi nel sondaggio “Doing Business” della Banca Mondiale. È al 97° posto per l’ottenimento delle licenze edilizie, al 98° posto per l’avvio di nuove imprese, al 122° posto per l’esecuzione dei contratti e al 128° posto per le norme fiscali.

Invece di investire per migliorare le infrastrutture fisiche e istituzionali, che potrebbero semplificare la vita alle imprese, il governo preferisce impiegare il denaro dei contribuenti nel salvataggio e mantenimento in vita di imprese zombie: in piena crisi legata alla pandemia abbiamo assistito all’ennesimo salvataggio di Alitalia.

“Se avessimo le infrastrutture dei tedeschi saremmo sei o sette volte più competitivi. Dobbiamo competere contro l’inefficienza”.

Marco Giovannini di Guala Closures

dice Marco Giovannini, capo di Guala Closures, leader mondiale nella nicchia di mercato dei tappi per bottiglie.Nel 2017 ha aperto il principale centro di ricerca della società in Lussemburgo, invece che nel Piemonte dove è nata la società.

A ben guardare il terzo tipo di capitale che scarseggia costituisce il rovescio della medaglia di una caratteristica ben descritta nel “Gattopardo”: l’orgoglio.

Nel 2017 Guido Corbetta dell’Università Bocconi ha stimato che metà delle aziende italiane di prima generazione hanno un proprietario-capo che ha più di 60 anni, e un quarto ne ha uno che ha almeno 70 anni. Insomma i manager che popolano le sale dei consigli di amministrazione sembrano quasi antichi quanto l’arte del Rinascimento che adorna le loro pareti. I più importanti uomini d’affari italiani – sono quasi esclusivamente maschi – sono ottuagenari: Berlusconi (84), Leonardo Del Vecchio di Luxottica (85), Luciano Benetton, il patriarca del clan dell’abbigliamento (85), Armani (86).

Non c’è da stupirsi se gli italiani credono che il sistema sia truccato e che favorisca pochi miliardari anziani e finiscono per favorire il populismo di partiti come il Movimento 5 stelle. I giovani di talento finiscono per trovare poco invitante la prospettiva di una carriera nel mondo degli affari. Secondo Andrea Alemanno di della società di ricerca Ipsos:

“Ci sono ormai poche opportunità in Italia, anche per i ricchi e benestanti”,

Andrea Alemanno

Nonostante questo circolo vizioso, alcuni esempi della gloria industriale italiano del dopoguerra persistono. Enel è leader mondiale nell’energia pulita. In alcuni settori le “multinazionali tascabili”, come le ha definite l’imprenditore Vittorio Merloni, che negli anni Novanta ha diffuso i loro prodotti in tutto il mondo: Lavazza e Illy (caffè), Moncler e Ermenegildo Zegna (moda), IMA e Marchesini (packaging), o Technogym (fitness kit).

In Italia dunque rimane un tessuto vitale , l’OCSE stima che quasi un quarto delle imprese italiane sia in forte crescita, più che nella maggior parte dei grandi paesi europei. Johann Rupert, il finanziere sudafricano che sta dietro a Richemont, ha pensato che gli artigiani italiani potrebbero trarre beneficio dal mancato adattamento alla globalizzazione, mentre il mondo viene a premiare le loro capacità di un tempo. Tronchetti Provera di Pirelli elogia l’accordo con ChemChina, che ha permesso alla sede centrale e alla tecnologia del gommista di rimanere a Milano, come “un’opportunità per rafforzare ulteriormente la nostra posizione in Cina senza rinunciare alle radici italiane”. C’è chi vede i capitalisti meno duri d’Italia come un antidoto a Wall Street; l’anno scorso Jeff Bezos ha fatto un pellegrinaggio a Brunello Cucinelli, fondatore di un’azienda di abbigliamento elegante che sostiene un capitalismo umanistico.

Nel 2011, poco prima di diventare governatore della Banca Centrale Europea, Mario Draghi ha avvertito i colleghi italiani che Venezia nel XVII secolo e Amsterdam nel XVIII secolo hanno piantato i semi del loro declino anteponendo il privilegio dell’elite all’innovazione. L’Italia delle imprese può aggrapparsi a ciò che resta del suo splendore, ma dovrebbe tenere bene a mente la celebre frase del romanzo:

“Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi.”

Giuseppe Tommasi di Lampedusa

Link all’articolo originale in Inglese

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Pubblicato da Massimo Famularo

Investment Manager and Blogger Focus on Distressed Assets and Non Performing Loans Interested in Politics, Economics,

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